La Consulta Giovani Cadore: presidio di resilienza nei territori montani

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Lago di Centro Cadore, Foto di Matteo Baldovin

Il territorio del Cadore, nella provincia di Belluno, è un luogo dove la bellezza naturale delle Dolomiti si fonde con la ricchezza della storia e della cultura delle comunità montane che lo popolano. Negli ultimi decenni però, il declino della natalità, l’aumento dell’età media e il sempre più elevato tasso di emigrazione hanno messo a rischio la vitalità di queste comunità e la loro capacità di creare opportunità di sviluppo. Fortunatamente, sono in molti a credere che non si tratti di un destino inevitabile ma che ci sia ancora modo di reagire.

Da un lato, infatti, il recente riconoscimento del Cadore come “Area Interna” consente l’accesso a finanziamenti a sostegno dell’economia locale, per rafforzare i servizi e creare nuovi posti di lavoro e prospettive per i giovani. Dall’altro, sono proprio i giovani a rivendicare il diritto di restare, costruendo nel territorio presidi di resilienza da cui poter cominciare a progettare un futuro su misura. Tra questi, la Consulta Giovani Cadore spicca per testardaggine e radicamento nel territorio, ed è proprio il suo fondatore Mattia Baldovin a parlarcene.

Quali sono, a tuo avviso, i fattori di spopolamento dell’area del Cadore?

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C’è da fare innanzitutto una riflessione a livello nazionale sulle motivazioni profonde dello spopolamento. Si parla sempre di carenza di lavoro e infrastrutture, e certamente è vero che molte imprese si sono spostate e i servizi sono venuti meno in seguito alle migrazioni degli abitanti, però non credo che questi siano gli unici fattori determinanti. Penso che in queste zone si parlerebbe di spopolamento anche se ci fossero ancora opportunità lavorative, perché in realtà è questione di mentalità. È sempre più evidente come i nostri territori non sappiano più accogliere e supportare le novità, finendo per escludere i giovani e accentuare lo scontro intergenerazionale. Al contrario, vedo che i ragazzi vorrebbero sentirsi partecipanti attivi, mettersi a disposizione del territorio, ma non trovano terreno fertile per le loro idee e spesso si ritrovano, loro malgrado, ad essere solo i protagonisti di slogan elettorali che non corrispondono mai ad azioni concrete e durature.

Per quanto riguarda il Cadore nello specifico, ci sono alcuni fattori che lo portano a soffrire particolarmente. Da un lato, il fatto che in quest’area ha dominato incontrastato il settore dell’occhialeria, impedendo lo sviluppo di altri tipo di impresa. Non aver diversificato e non aver saputo investire nel turismo negli anni in cui le possibilità economiche lo avrebbero permesso ha portato ad un grave impoverimento del territorio. Nel momento in cui l’industria si è spostata non è rimasto nulla. Dall’altro lato, lo spopolamento passa anche dal problema della residenzialità, di cui si parla poco e che può apparire incredibile visto l’alto numero di case abbandonate che spesso si trovano nei paesi montani. Invece molte di queste sono chiuse dagli anni ’60, non sono mai state restaurate e oggi non rientrano nei parametri energetici, comportando consumi altissimi e un importante impatto ambientale. A questo si aggiunge una mancanza di detrazioni e incentivi. Ecco che un giovane, anche quando riesce a trovare lavoro in quest’area, preferisce spostarsi in città che continuare a vivere con i genitori.

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Come immagini l’evoluzione delle aree interne nei prossimi decenni?

Mi viene difficile pensare che lo spopolamento sia un fenomeno irreversibile, cosciente del panorama mondiale. La vita nelle città sta diventando insostenibile e sempre meno a misura d’uomo. Tra non più di dieci anni le città saranno contenitori vuoti: luoghi di lavoro in cui recarsi con la mascherina e da cui andarsene al più presto. Sono convinto ci sarà una ricerca del fuori-città, di aria pulita, di rapporti di comunità e di una qualità di vita diversa, rallentata. Ecco che qui potranno entrare in gioco i borghi. Ma saremo pronti ad accogliere il potenziale flusso di persone che vorrà tornare a vivere in queste zone? Probabilmente no, perché non siamo pronti nemmeno oggi a dare un tetto a chi risiede in questi comuni. Se non giochiamo le carte giuste per dare delle motivazioni a chi vuole rimanere e incentivare chi vuole venire, a quel punto sì, diventerà un processo irreversibile. È necessario realizzare interventi mirati, come non si è fatto per troppo tempo. Già nel 2000 ci piazzavamo tra le nazioni più anziane a livello europeo, ma i dati e le statistiche servono a poco se non sono affiancati dalla conoscenza della vita nei territori, se usati per sfornare soluzioni dall’alto o per decidere a tavolino quali azioni versare a pioggia sui giovani, senza lasciare che siano loro a dirci quale futuro desiderano.  

Consulta Giovani Cadore, foto di Mattia Baldovin

È per facilitare questa partecipazione che hai deciso di fondare la Consulta Giovani Cadore? Di cosa si occupa e come si inserisce nel progetto di contrasto alle migrazioni giovanili? 

La Consulta è nata nel 2019, dopo un periodo in cui, pur vivendo lontano, guardavo al Cadore con nostalgia e continuavo a chiedermi come dare il mio contributo. È un’associazione che vuole innanzitutto essere un luogo di incontro alternativo, diverso dal bar o dalla sagra, dove produrre e respirare cultura, far fermentare idee e consentire ai ragazzi di mettersi in gioco. Quando l’abbiamo fondata l’abbiamo pensata su due pilastri: il primo legato al supporto della cittadinanza attiva e della partecipazione dei giovani ai tavoli decisionali, creando uno spazio di aggregazione apartitico dove portare liberamente la propria opinione e imparare a confrontarsi con quella altrui per realizzare progetti e sogni condivisi.

Il secondo investe sulle occasioni di formazione per i ragazzi, cercando di ospitare professionisti che possano realizzare laboratori e convegni nelle nostre aree, dato che la lontananza e l’inaccessibilità di questi eventi può rappresentare un altro importante fattore di spopolamento. Abbiamo molti piccoli comuni su un’estensione territoriale veramente grande, e spesso le attività vengono centralizzate nelle municipalità maggiori, finendo per escludere chi vive nei luoghi più isolati e mal collegati. Per una volta, quindi, ci è sembrato giusto che fossero i corsi a raggiungere i giovani: un segnale per dimostrare che li reputiamo un valore per il nostro territorio. Sempre in quest’ottica, stiamo cercando di mettere in piedi uno sportello informativo per coloro che nel cassetto hanno un sogno imprenditoriale, per supportarli non solo economicamente, ma anche semplificando il lavoro a livello logistico, mobilitandoci per rendere i loro progetti realizzabili e sostenibili. 

Credi possibile conciliare il reinserimento dei giovani nel territorio con la salvaguardia delle tradizioni locali?

Certo, la cultura del territorio è parte della nostra identità, però io stesso ricordo che per anni mi è stata trasmessa con un po’ di pesantezza, finendo per creare distanza. Noi crediamo che i giovani debbano potervisi approcciare in maniera dinamica: chiediamo anzitutto a loro cosa vorrebbero, e come vorrebbero farlo. A quel punto ci rivolgiamo agli attori locali, partecipiamo agli incontri dove sono presenti imprenditori e artigiani, monitoriamo e promuoviamo laboratori che consentano di fare esperienza sul campo ed entrare in contatto con i mestieri, l’agricoltura, la nostra storia.

Vogliamo mettere i ragazzi in condizione di incontrare figure che possano raccontare il loro percorso, inserendoli nelle realtà già esistenti, favorendo la convivenza tra il recupero della tradizione e l’ingresso di nuove idee. In questo senso, da anni alcune ragazze della Consulta si occupano di Generazione Futura, una rubrica di un giornale locale, Il Cadore, che racconta storie di giovani impegnati nel volontariato, nel lavoro, nello sport, nello studio, svolgendo un’importante opera di divulgazione che permette di accrescere la consapevolezza del potenziale giovanile nel territorio e la voglia di supportarli, contrastando lo spettro de “i giovani che non hanno voglia di fare niente”. Può sembrare un lavoro di poco conto, ma in realtà abbiamo già creato la svolta: il dialogo tra passato e futuro che mancava.

Quale messaggio vorresti dare ai giovani “restanti” o “ritornanti” nelle aree interne?

Direi che siamo pochi, ma siamo ancora qui, e quindi nulla è perduto. Direi non abbiate paura di prendervi il posto che vi spetta per contribuire a identificare i problemi e trovare nuove soluzioni. Direi anche che andarsene non è sbagliato, io l’ho fatto, mi sono trasferito a Padova, dove ho studiato e lavorato per un periodo, e poi ho deciso di ritornare. Ho lasciato il comfort della città perché amo il mio territorio e credo che offra una prospettiva di vita migliore, anche se sicuramente meno semplice. Per me il grande successo di un territorio è proprio riuscire a far spiccare il volo ai propri giovani, e dare loro poi le motivazioni per tornare. È normale per un ragazzo trovarsi a sognare la città senza preoccuparsi dello spopolamento, l’importante è che poi una volta cresciuto, se gli viene voglia di tornare, non si scontri con quella mentalità conservatrice di cui parlavo, che richiede un’immensa determinazione per essere superata.

Il messaggio quindi è anche uscite, siate curiosi, aprite la mente, conoscete altre realtà, assorbite come spugne. Solo questo vi permetterà di capire il bello e il brutto dei vostri territori, di fare vostre le esperienze altrui e maturare competenze per fare la differenza. Tenendo in chiaro anche che si può fallire, imparando qualcosa di nuovo per fare meglio la prossima volta. E quindi rischiate, buttatevi con determinazione per realizzare i vostri sogni, anche se vi sembra che ad oggi nei territori non si faccia nulla per rendere più semplice la vita dei giovani, siate determinati e puntate su quella da parte di comunità che crede in voi, fino a vederla piano piano allargarsi, facendo da capofila al cambiamento. Questo è stato anche il mio percorso, e lo rifarei mille volte. Oggi non sono pochi i casi di giovani che scelgono di tornare e di prendere in gestione piccoli agriturismi o rifugi in gestione in alta quota, e questo secondo me è un bel segnale, indica una generazione che guarda e si approccia al territorio in maniera diversa, ed è questa la direzione in cui dobbiamo essere tutti pronti a spingere. 

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