Da Venezia a Verona, anche in Veneto negli ultimi giorni la “protesta dei trattori” – divampata in Europa a partire da Germania e Francia – è scesa in strada per protestare contro i costi di produzione sempre più alti per gli agricoltori e i problemi creati dalle politiche “green” europee. Non sono mancate le note polemiche contro le grandi organizzazioni di settore accusate di comportarsi troppo da lobby e poco da sindacato.
Proprio a Verona ha le sue radici l’Ari, Associazione rurale italiana, nata negli anni ’80 dall’esperienza delle “scuole rurali” e aderente alla Fimarc, federazione internazionale dei contadini cattolici, successivamente “innestatasi” nel movimento globale di Via Campesina che raggruppa 200 milioni di piccoli contadini nel mondo. Ari è intervenuta sulle proteste in corso con un documento che inquadra le specificità italiane nel contesto europeo e in una prospettiva agroecologica. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Garbarino, allevatore sull’Appennino ligure-piemontese, co-coordinatore di Ari insieme alla veronese Paola Peretti.
Garbarino, quali sono le cause scatenanti delle proteste di questi giorni in Italia?
Per prima cosa la scelta del governo Meloni di rimettere l’Irpef sui terreni agricoli che il governo Renzi aveva tolto. L’altro motivo è il Green Deal europeo, che chiede agli agricoltori di fare una produzione più verde, attraverso un sistema estremamente complicato di eco-schemi (che subordinano l’erogazione dei contributi a una stringente valutazione delle pratiche agricole rispettose dell’ambiente, ndr), ma a fronte di contributi sempre più magri.
Qual è la vostra posizione sul Green Deal?
Noi abbiamo sempre detto che il Green Deal è troppo timido, bisognava essere molto più incisivi. Ma nell’attuale situazione di mercato, e vista l’enorme quantità di risorse a disposizione dell’Europa, per permettere ai contadini di compiere la transizione ecologica senza rimetterci bisognerebbe pagarli bene. Se no chiudono.
Chi scende in strada in Europa oggi? E perché in Italia non protestano le grandi associazioni del mondo agricolo?
La differenza che salta agli occhi è che in Europa scendono in piazza le organizzazioni, anche con posizioni diametralmente opposte tra loro. In Francia c’è una divisione netta: da una parte i trattori della Confédération Paysanne, che rappresenta i piccoli contadini, dall’altra quelli della FNSA, che rappresenta le grandi aziende, ad esempio quelle cerealicole, da 500-600 ettari. In Francia si sentono rappresentati da queste due macro-aree che hanno idee chiare e modalità diverse. In Italia non c’è un sindacato in piazza, e chi protesta non li vuole: sono passato in strada oggi ad Alessandria e mi hanno detto che non vogliono le bandiere delle organizzazioni ufficiali.
C’è un problema di rappresentanza?
Si tratta di un rifiuto, su cui mi sento di dare loro ragione: le organizzazioni di categoria oggi sono parte del problema, da troppi anni inseguono chimere, fanno lotte “di potere” e hanno lasciato indietro i loro iscritti, senza rendersi conto che il numero di aziende agricole che sta chiudendo anno dopo anno è sempre più alto. Ci parlano della carne coltivata o degli Ogm, che non aggrediscono il problema: i contadini fanno dieci lavori per portare a casa uno stipendio.
Noi di Ari rappresentiamo una quota molto piccola di agricoltori, ma in Italia la rappresentatività è “di facciata”. Se sei un contadino per fare la dichiarazione dei redditi devi tesserarti a un’associazione di categoria, per poterti appoggiare ai Caa, centri di assistenza agricola, legati principalmente a Coldiretti, Cia e Confagricoltura.
Nel vostro comunicato sottolineate che tra chi protesta in Europa «non ci sono soltanto gli agricoltori classici che coltivano il proprio appezzamento di terra più o meno grande, ma anche moltissimi contoterzisti che sono la nuova formula con cui le grandi aziende si liberano dei braccianti e pagano ditte esterne per fare i lavori». Che significato ha questo distinzione?
Oggi l’agricoltura si sta trasformando. C’è stata una progressiva distruzione del tessuto agricolo dovuta a scelte imposte dall’alto, per favorire la concentrazione, motivata dalla poca redditività delle piccole aziende. Chi ha chiuso si è trasformato in conto terzista e va a coltivare le terre degli altri (che a volte erano le loro). Non ha più il problema di vendere il prodotto, ma quando aumenta il costo del gasolio si fatica ad andare avanti. E se si rompe il trattore, è un problema suo. Tuttavia la scarsa redditività è un problema anche delle grandi e grandissime aziende, che stanno in piedi perché sono fortemente sussidiate.
Come Ari siete presenti alle proteste?
Noi siamo presenti perché pensiamo che dobbiamo lottare insieme, ma con la nostra agenda, e senza farci strumentalizzare dall’estrema destra. È da 20 anni che lottiamo per una Pac, politica agricola comune europea, più sostenibile ambientalmente ed economicamente. Una Pac che ripartisca in maniera più equa i contributi, di cui oggi l’80% va al meno del 20% delle aziende agricole, e che in 60 anni ha distrutto l’80% del lavoro in campagna.
L’obiettivo non è farsi togliere un po’ di accise sul gasolio, ma è fare una vita diversa. Oggi il contoterzista è pagato meno di un operaio, per stare su un trattore 16 ore al giorno. I cittadini europei non hanno più voglia di pagare per questo modello agricolo. L’alleanza tra contadini e cittadini va costruita su altre basi.
Coldiretti, la principale organizzazione del settore, ha annunciato che l’1 e il 2 febbraio non sarà presente a Fieragricola, a Verona, perché sarà a Bruxelles a protestare contro l’obbligo di lasciare incolto il 4% dei terreni destinati a seminativi, imposto dalla Politica agricola comune per rigenerare i suoli. Che ne pensate?
È una delle tante contestazioni che vengono fatte, una delle più strumentalizzabili. È facile colpire una regola che mira a mantenere inattiva parte dei suoli distrutti da anni di agricoltura industriale, con l’obiettivo di rigenerarli. Coldiretti protesta contro se stessa, dal momento che esprime il vice presidente di Copa-Cogeca (il più forte gruppo di interesse degli agricoltori europei, ndr), che tiene in mano le chiavi del potere agricolo in Europa.
Il problema è che la Pac adotta un modello neoliberista, che applicato in agricoltura è ancora più perverso. Rappresenta il secondo capitolo di bilancio dell’UE, con 386 miliardi di euro per il 2023-2027. La Pac era nata per dare la sicurezza alimentare agli europei, oggi deve servire anche a farli mangiare meglio e tenere i territori puliti e sani. Ci sarebbero tutte le risorse per rovesciare l’attuale modello di agricoltura industriale e farne crescere uno sostenibile, biologico, agroecologico, che produca cibo di qualità.
Se lo facessimo, non ci sarebbe bisogno di obbligare gli agricoltori a lasciare il 4% dei terreni improduttivi, perché i terreni sarebbero già in salute. Con il modello vigente invece dobbiamo continuare a pompare: acqua, fertilizzanti, pesticidi, petrolio per far funzionare trattori sempre più inquinanti, in una catena senza fine.
Un’altra misura, per la verità molto poco discussa, adottata dall’attuale governo riguarda i giovani: con la legge di bilancio 2024 è stato abolito l’esonero dei contributi Inps per gli agricoltori sotto i 40 anni.
Crediamo ci sia un grosso problema di ricambio generazionale nelle aziende agricole. In Italia l’età media per gli agricoltori è 63 anni, troppo alta. La Pac in questo è insufficiente. Tanti ragazzi vorrebbero prendere in mano le aziende, ma pochissimi ci riescono a a causa dei meccanismi economici e burocratici. Con Paola Laini, Ari è responsabile europea di Via Campesina per il settore dei giovani in agricoltura.
Tra il 2 e il 4 febbraio terrete a Roma, nella Cooperativa agricola Coraggio, terrete la vostra assemblea annuale. Quali sono i temi più caldi?
Il tema è il diritto alla terra: come viene utilizzata, da chi, se ce n’è abbastanza per i giovani e i meno giovani. La terra in Italia è un bene scarso, a causa di cementificazione, grandi opere inutili, accaparramento e tanto abbandono: dai 500 metri di altitudine in su il territorio è inselvatichito, e non porta benessere a nessuno, con la crescita di boschi instabili dal punto di vista idrogeologico, l’aumento del rischio di incendi e la diffusione incontrollata degli animali selvatici. Ne parleremo in un dibattito pubblico il 3 febbraio in cui si confronteranno esperienze da tutta Italia. E poi faremo due giorni di full immersion per decidere le linee politiche – ci tengo a sottolineare questa parola, perché l’agricoltura è politica – della nostra associazione per il nuovo anno.
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